martedì 1 dicembre 2009

Foglio 2 dicembre: Marchionne FIAT Detroit

Roma. L’incontro tra Sergio Marchionne e Claudio Scajola ha aperto il sipario su una commedia degli equivoci. Il primo riguarda gli incentivi. Verranno prorogati per auto ecologiche, dice il ministero dello Sviluppo economico. L’amministratore delegato Fiat ostenta superiorità: “Non ne abbiamo parlato”. E tuttavia è questo il nocciolo duro dell’intera questione, di qui all’incontro a Palazzo Chigi subito prima di Natale.
Per Termini Imerese l’azienda ottiene quel che voleva: spostare la Lancia Ypsilon in Polonia dal 2011 e non produrre più automobili in uno stabilimento lontano, inefficiente, isolato come quello siciliano che risale agli anni 60 e nacque per le forti pressioni di politici eccellenti (Ezio Vanoni, Pietro Campilli, Gaetano
Martino) su un riluttante Vittorio Valletta. Il ministro porta a casa l’impegno che la fabbrica non chiude, ma costruirà qualcos’altro. Che cosa, non si sa. Soprattutto,
non è chiaro con i soldi di chi: della Fiat, dei contribuenti, della regione Sicilia, delle banche del sud, quella futura e quelle esistenti (come il Banco di Sicilia).
O magari si farà ricorso a uno schema Alitalia, sia pur in piccolo, chiamando a raccolta un po’ di imprenditori locali, come i capitani coraggiosi già impegnati nella lotta alla mafia.
E’ positivo che i millecinquecento lavoratori oggi occupati vengano reimpiegati (la mobilità non può essere dal posto fisso alla disoccupazione, come si diceva quando la legge Biagi era un punto di riferimento). Ed è ottimo che un’industria venga riconvertita, anziché chiusa: se certi prodotti non vanno più, se ne fanno altri.
In fondo, Termini Imerese è un capannone dove vengono montate componenti metalliche, non è una centrale termonucleare. Gli interessi dell’automobile, quelli della Fiat e quelli dell’Italia, che spesso divergono, dunque, possono trovare un punto di incontro. Ma a beneficio di tutti. Come?
Scajola e Marchionne hanno parlato di un progetto condiviso da azienda, sindacati e governo. Un triangolo del consenso per molti versi simile al modello seguito
negli Stati Uniti per la Chrysler. Con un cauto do ut des.
L’amministratore delegato Fiat lo ha fatto balenare ieri, sostenendo che è possibile aumentare la produzione di auto in Italia dalle attuali seicentomila a novecentomila
vetture: “Non è un numero astronomico”. In sostanza, si tratta di potenziare altri stabilimenti meridionali come Pomigliano d’Arco, dove verrebbe trasferita la Panda da
Tychy non appena lassù entrerà in produzione la nuova Ypsilon. Alla Cgil non basta: per Epifani c’è un potenziale di due milioni di pezzi, come vent’anni fa. Gli
operai di Termini Imerese hanno subito scioperato. Ma davvero dobbiamo fabbricare più automobili?
Se l’Europa ha una sovrapproduzione del 30 per cento, è meglio andare dove la domanda tira. Marchionne, del resto, persegue proprio questa strategia mondiale. Una
scelta importante, ma va sostenuta dalla proprietà, la quale non può mettere come vincolo di non tirar fuori un centesimo. E qui cala l’ombra più pesante. Dare soldi
pubblici a un’impresa o anche a un settore industriale può servire per tamponare un’improvvisa crisi congiunturale, ma crea distorsioni inutili e costose
quando si trasforma in sostegni permanenti. La storia lo dimostra. A cominciare dalla storia Fiat.
Bisogna fare vetture buone e che piacciono, ciò vale anche per l’auto ecologica. Se Torino guarda a Detroit, allora prenda esempio da Ford (che si è salvata da sola e
vende alla grande anche in Italia, come mostrano i dati delle immatricolazioni di novembre). Marchionne ha detto lunedì alla famiglia Agnelli riunita per la solita
assemblea annuale: “Non possiamo essere noi a fare la politica industriale”. Giusto. Ma allora, ammesso che la politica industriale serva davvero, non può essere a
misura Fiat.